An impossible love
27 Aprile 2020

I protagonisti di ‘resilienza’ sono reali, così come la storia.
Una coppia di gabbiani nidificava sul tetto del palazzo di fronte ogni primavera.
Noi potevamo osservarli dalla finestra del salotto, che per fortuna stava quasi alla stessa altezza delle tegole che loro avevano scelto come rifugio.
Seguivamo le peripezie dei loro piccoli come fosse un film.
Purtroppo, quest’anno la coppia non si è presentata. Era il periodo del lockdown, per cui abbiamo supposto che,
data la scarsità di cibo in città, siano andati a riprodursi altrove.
Era un racconto senza titolo, scritto qualche anno fa, durante il mio primo corso di scrittura.
Il titolo è arrivato in un giorno di quarantena; si parlava tanto di resilienza dell’essere umano,
e mi è sembrato naturale affiancare questo termine anche ai piccoli gabbiani.

Dedico questo racconto al mio insegnante di scrittura che, troppo presto, è venuto a mancare.

 

Resilienza

 

Per quasi un mese si sono dati il cambio nella cova, sul nido raffazzonato di rami secchi e pagliuzze. Essendo indistinguibili però, non riuscivamo mai a capire quando ci fosse la femmina e quando il maschio. Forse il maschio era quello più vigile, spesso in volo a scrutare dall’alto i pericoli e le fonti di cibo; il mio compagno aveva quest’impressione. Con il sole inclemente o con la pioggia, col maestrale o il freddo improvviso dei giorni passati le uova sono sempre state al sicuro. I gabbiani sono genitori premurosi.

Hanno scelto come casa il tetto del palazzo di fronte al nostro, un vecchio edificio d’epoca medioevale nel centro storico di Roma. Dal balcone del salotto potevamo vederli bene. Li abbiamo seguiti sin dall’inizio e, forse, incoraggiati a stabilirsi. Ogni tanto lasciavamo qualcosa da mangiare sulla balaustra: avanzi di pollo, pasta, pizza, biscotti, andava bene tutto, sembravano gradire senza complimenti. Non hanno certo il canto melodico degli usignoli o il passo aggraziato delle ballerine bianche, ma possiedono comunque il loro fascino. I gabbiani reali concentrano la bellezza nel volo. Maestosi, trasportati dalle correnti, paiono fluttuare come piume. A osservarli ci si sente liberi.

La settimana scorsa le uova si sono schiuse. Due piccoli pulcini con un finissimo piumaggio grigio e macchie scure hanno fatto capolino tra le tegole. Il loro pigolio sovrastava gli altri rumori, bucava i doppi vetri intenso e allarmante. Faceva più che bene il suo naturale lavoro, attirare l’attenzione dei genitori. Li guardavamo reclamare il cibo insistenti, sgolarsi sino allo sfinimento, non sempre con i risultati che si aspettavano. Col passare dei giorni notammo un particolare: uno dei pulcini cresceva più in fretta, era scaltro, si muoveva facilmente, raggiungeva prima il cibo. L’altro invece, non riusciva a scavalcare le tegole se non dopo immani sforzi e lasciava di rado il nido. Era molto piccolo, troppo.

Poi, venne il diluvio.

Una notte cominciò a piovere come non capitava da tempo. Vento e pioggia si abbatterono inclementi sulle case per ore, l’acqua prese a scorrere con l’impeto di un torrente dalle grondaie lungo le strade.

Ci svegliammo. Anche da sotto le lenzuola potevamo percepire quella forza. Il nostro pensiero era univoco, non avevamo bisogno di parlarci per sapere cosa ci preoccupasse in quel momento. Il tetto di fronte in pendenza, l’acqua, i pulcini.

La mattina presto andammo a controllare. Aveva smesso di piovere ma, sollevando le tapparelle, un brivido ci percorse la schiena; quale scenario avrebbero visto i nostri occhi? Fu necessaria solo una manciata di secondi per capire.

Ci accolse subito lo sguardo attento di uno dei genitori, che con il capo reclinato sulla destra pattugliava l’area intorno. Il nido era in disordine, danneggiato alle estremità, eppure ancora c’era. Lì accanto il pulcino più grande si esponeva ai primi raggi di sole. Il soffice piumaggio rifletteva la luce, scarmigliato dal vento. Del più piccolo, nessuna traccia. In fondo dovevamo aspettarcelo, se non oggi per la pioggia, magari domani per una cornacchia affamata. Con le braccia arrese lungo i fianchi continuavamo a fissare quel tetto. Forse ci saremmo dovuti alzare durante il diluvio, forse l’avremmo potuto salvare. Forse l’avremmo potuto recuperare in tempo dal fiume che lo trascinava lungo la strada invece di lasciare che affogasse. Chissà dove sarà ora il suo corpo fradicio.

Poi il gabbiano stirò le ali, enormi, bellissime, e fu dietro di esse che qualcosa si mosse. Il pulcino più piccolo emerse da una tegola divelta. Arruffato e goffo, pretese il suo pasto. Liberammo contemporaneamente un sospiro di sollievo, un sorriso, e d’istinto ci prendemmo per mano.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Condividi