Era giugno inoltrato e pioveva. Facevo una passeggiata lungo la Queen’s Walk, verso il Westminster Bridge, prima di rifare le valige e partire. La malinconia si insinuava, lasciare Londra fa sempre male. Poi la pioggia smise di cadere per un po’, e mi concesse di ripiegare l’ombrello. Guardavo le nuvole che sembravano aprirsi, il cielo si schiariva ma per la luce era tardi: il sole aveva cominciato a calare. Per questo pensai che l’arcobaleno comparso all’improvviso sopra il London Eye fosse insolito. Presi subito il cellulare, scattai più volte, nessuna foto uscì davvero bene. Ne tenni solo una, meno sfocata delle altre seppur con una brutta inquadratura.
Mi rassegnai al rientro. Dovevo affrettarmi in albergo e prendere un taxi per l’aeroporto di Stansted, dove l’unica consolazione sarebbe stata il banco delle donuts glassate di Krispy Kreme.
Superato il London Dungeon incrociai due ragazzi che si tenevano per mano. Giovani e bellissimi, non riuscii a distogliere lo sguardo. Uno era appena più alto con i capelli chiari, mentre l’altro era moro con un accenno di tratti orientali. Forse fu a causa della tristezza, della rabbia per la partenza, che mal interpretarono la mia espressione. Probabilmente, credettero che il fastidio nei miei occhi fosse rivolto a loro. Si lasciarono le mani, come scottati. Ci rimasi malissimo.
Da qualche tempo avevo deciso di scrivere un romanzo, o forse, e giuro che ancora non l’ho capito, era stato il romanzo ad aver deciso di essere scritto. Avevo già in mente una storia, il luogo e le caratteristiche dei personaggi invece erano vaghi, non riuscivo a definirli. I ragazzi di quella sera risolsero ogni dubbio diventando Rey e Kaede. In fondo, credo sia stato il mio modo per chiedere scusa.
Rientrata a Roma cominciai finalmente a scrivere.
Dopo più di due anni “La primavera dell’acero tridente” è terminato. Inizio da qui, dal primo romanzo, dal primo post che, sono certa, non resteranno soli.
2 Comments
Dopo aver finito di leggere questo romanzo che ho trovato emozionante e stupendo e che rileggerò ancora una volta, ero proprio curiosa di sapere qualcosa in più sull’autrice: perché la dedica a quei due ragazzi che si tenevano per mano sulle rive del Tamigi? Rey e Keade sono stati ispirati da loro? E come mai la scelta del Giappone, di Kyoto? E di Londra?
Collegendomi al sito, ogni mio dubbio è stato sciolto.
Volevo ringraziarti Francesca. Con questo romanzo mi hai toccato il cuore e l’anima!
Ho capito perfettamente Keade e, in molte situazioni, mi sono rispecchiata anche io in lui e mi sono rivista. Pure io ho un passato legato a una terra lontana dall’Italia (non così lontana come il Giappone) e non conservo tanti bei ricordi di quel periodo, dove mi ero chiusa e rifiutavo il contatto con il mondo.
Ho affrontato il dolore insieme a Keade, ho compreso quello di Rey, quello del padre. In certi momenti ho provato rabbia, in altri ho sorriso e in altri ancora mi asciugavo le lacrime.
Grazie Francesca!
Hai un grandissimo talento che è quello di capire l’animo umano e di raccontarlo, in maniera impeccabile e perfetta, attraverso la scrittura, come DAVVERO POCHI riescono a fare. Tu ne sei capace e leggerti non stanca mai.
Grazie a te Silvia per questi bellissimi complimenti, sono felice che il mio romanzo ti abbia emozionata! Grazie mille davvero, per me è un grande incoraggiamento.